L’impossibilità di spiegare. La realtà di apprendere.

 

Non comunico…

 

Quello che segue è un brano tratto dal libro di Thomas Merton (1915-1968)“La via semplice di Chuang Tzu” (Edizioni Paoline). Thomas Merton fu un monaco trappista americano, molto attivo come scrittore negli anni cinquanta e sessanta. Egli aveva una predilezione per il sapere filosofico e religioso estremo orientale, che lo portò a dedicare diversi anni di studio e meditazione sull’opera letteraria nominata Chuang Tzu ((莊子 庄子 Zhuāngzǐ, Chuang-tzu; 369 a.C. Circa – 286 a.C. circa). Il risultato di tali studi, comprese le analisi comparate di varie traduzioni in lingua inglese tedesca e francese dell’opera, è il breve, ma intenso libro che è stato pubblicato in Italia da Edizioni Paoline col titolo sopra citato e che raccoglie alcuni dei migliori passi dell’antico testo cinese, più un interessante saggio storico.

Nutro molta stima per Thomas Merton pensatore e scrittore, ed enorme ammirazione per i saggi filosofi cinesi che hanno dato forma allo Zhuāngzǐ, più di duemila anni fa. Riguardo alla traduzione del testo cinese originale, lo stesso Merton la definisce una sua “libera rilettura interpretativa”..

Ecco il brano intitolato “Il duca di Hwuan e il fabbricante di ruote”:

Il duca di Hwan, da Khi, il primo della sua dinastia, sedeva sotto il suo baldacchino leggendo la sua filosofia; e Phien il carraio era fuori in cortile a costruire una ruota.

Phien depose il martello e il bulino, salì i gradini, e domandò al duca Hwan: «Posso chiedervi, Signore, che cosa state leggendo?»

Rispose il duca: «Gli esperti. Le autorità».

E Phien allora: «Vivi o morti?»

«Morti e sepolti».

«Allora», replicò il carraio, «Leggete solo il sudiciume che hanno lasciato».

Ribatté il duca: «Tu che ne sai? Sei un semplice fabbricante di ruote. Sarà meglio che ti giustifichi o morirai».

Il carraio disse: «Guardiamo la faccenda dal mio punto di vista. Quando fabbrico le ruote, se non stringo abbastanza, si disfano, se sforzo troppo, non si incastrano. Se non sono né troppo molle, né troppo duro, mi riescono bene. Sono io che decido come verrà il lavoro. Non lo si può spiegare a parole: occorre saperlo fare. Neppure a mio figlio so dire come si fa, e lui non può impararlo da me. Così eccomi qui, a settant’anni, ancora a fabbricare ruote!

Gli uomini di un tempo portavano con sé nella tomba tutto ciò che conoscevano bene. Perciò, Signore, ciò che voi state leggendo è solo la spazzatura che hanno lasciato».1

Nella sua semplicità è quasi banale e personalmente mi suscita anche un po’ di pena la figura di quel carraio, che deve ancora lavorare a settant’anni perché non è stato in grado di insegnare a suo figlio come si fa a fabbricare una ruota. Nonostante tutto c’è sempre qualcuno che impara e qualcun altro che insegna, ma l’insegnamento e l’apprendimento non sono due momenti distinti. Il senso di questo racconto o parabola, non è solo quello che le parole scritte, una volta morto chi le ha vergate, sono inutili e inutilizzabili, altrimenti non si spiega perché gli autori dello Zhuangzi abbiano continuato nella loro opera di stesura del testo.

Il vero senso è che ogni insegnamento autentico, scritto o orale, deve essere vissuto da chi vuole apprenderlo tramite un’esperienza diretta, altrimenti non avviene un autentico apprendimento. Quello che noi comunemente chiamiamo apprendimento è un processo di incarnazione, con assunzione temporanea o permanente di alcuni atteggiamenti o capacità corporee e mentali, che prima non erano sufficientemente sviluppate in noi, tanto da essere manifeste.

Il carradore Phien era evidentemente in grado di fabbricare ruote con grande abilità, tanto da aver fatto quel mestiere per tutta la vita, anche a cottimo di un duca. Egli sicuramente aveva avuto un maestro che gli insegnò il “mestiere”, probabilmente il padre, ma non era stato in grado di insegnarlo al proprio figlio. Perché? Invero Phien non aveva mai appreso nulla di nuovo da qualcuno al di fuori di sé; si era semplicemente fatto stimolare in quella parte di sé, quella naturale e spontanea, che gli permetteva di fare ruote giuste per i carri.

In effetti il modo in cui qualcuno può o potrà mai insegnare ad un altro (il metodo educativo), non è che una forma di stimolo o provocazione capace di far insorgere nell’altro un movimento di risposta. Io leggo il Zhuangzi e per reazione ho un sobbalzo: le parole che ho letto non sono davvero altro che inchiostro su carta, ma quello che importa è che a causa della lettura di quelle parole, in me avviene un sommovimento di forze, energie che prima erano immobili ma che poi si sono fatte percepire.

Poi tutto viene da sé: ricerche, meditazioni, confronti e dialoghi con altri che hanno il mio stesso interesse per la filosofia dei taoisti antichi.

Forse il figlio di Phien era solo svogliato o davvero incapace di fare ruote: anch’io non sarò mai in grado, per quanto mi possa impegnare, di fare il funambolo, perché non ho equilibrio. Le parole di Phien sono però autentiche ed esprimono una parte importante di verità. In effetti, quello che conosceva il taoista che scrisse questo racconto io non potrò mai conoscerlo pienamente (mi riferisco a quello che doveva sperimentare direttamente in ogni attimo della sua vita). Quindi non potrò mai essere esattamente come quella persona, ma potrò sviluppare nella mia carne e nella mente, quell’atteggiamento di ricerca della conoscenza.

La parola solletica un pensiero che tenue si annuncia.

Esso dilata e la carne prova un tremito: cos’è?

Tra brevi spasmi il corpo prende atto di un qualcosa che già in lui era.

Si fa pratica e abilità, poi conoscenza vera.

Fu quella parola a dettarmela? No! Era solo un annuncio

ma riverso.

Se con le sole parole appare comunque arduo provocare uno stimolo vero, esistono delle vie perfezionate che consentono di riversare l’intimo sapere esistenziale, da persona a persona in modo totale, come ci rammenta un grande maestro Zen giapponese:

A partire dal fondatore del buddismo, Śākyamuni, tutti coloro che hanno vissuto vedendo chiaramente il giusto modo di esistere, mentre hanno ininterrottamente continuato a trasmettere da una persona che aveva realmente quel carattere ad un’altra che a sua volta lo possedeva, hanno testimoniato quel modo di vivere perfettamente armonioso. Non vi è che un modo supremo al di là delle possibilità della nostra volontà, che è base e fondamento di quel modo di essere. Questo modo è come versare tutta l’acqua di un recipiente così come è in un altro.

Ciò che è così trasmesso è l’individualità che vive il Sé originale in forma autentica; proprio questo modo di vivere è la base, la norma caratteristica dell’insegnamento di Śākyamuni.2

Zhuangzi mi comunica che posso conoscere solo tramite la mia esperienza diretta, carnale e Eihei Dōghen dice che, in quanto già dentro di noi è presente “il giusto modo di esistere”, possiamo manifestarlo e stimolare altri a renderlo a sua volta manifesto.

Il versamento di cui parla Dōghen però non è un passaggio di qualcosa in qualcosa d’altro, come si versa del latte da una brocca alla tazza, il cui solo passaggio comporta inevitabilmente un rimescolamento e scuotimento che ne cambia, anche se impercettibilmente la consistenza.

Il versamento non è neppure un mero stimolo o innesco, come una chiave che girandola fa scattare la serratura della porta, o la scintilla nella candela del motore di una macchina; né è un semplice ammaestramento, come il bambino che impara a tenere in mano un cucchiaio, ma è più simile alla fame o alla sete e allo sfamare e dissetare.

È tutte queste cose, ma anche di più e di meno. Il senso vero lo si trova nella storia del rapporto tra maestro e discepolo, che nello Zen ricopre un’importanza capitale.

I sentieri di maestro e discepolo si uniscono, la luce della loro mente si fonde come acqua con acqua, spazio con spazio3

Proprio stando a contatto con una persona che già manifesta un modo o uno stile, io col tempo sviluppo quel modo o stile, che a sua volta in me assume delle caratteristiche uniche. Attenzione! Non è solo lo stare o il contatto, ma il sentire, come sentendo l’odore del pane appena sfornato, al pari di uno che non mangia da molto tempo, provo improvvisamente una gran fame. Allora ricerco l’alimento che mi sfama e vedendo che la fame permane ne chiedo ancora e ancora. Il maestro si offre al discepolo e così svolge la sua funzione riversante. Il discepolo lo accoglie e così svolge la sua funzione recepente, ma recepire non è a sua volta dissimile dal riversare.

La necessità di qualcuno che mi indichi la Via.

Credo sia molto importante incontrare nella propria vita un vero insegnate. Più importante ancora è l’attenzione verso l’atto stesso dell’insegnare, o meglio, quello stile intimo ma universale, che ogni uomo e donna manifesta nel relazionarsi con la vita di ogni alta cosa. Solo uno che già vive quello stile può insegnare.

Anche se solo per un breve momento una persona intelligente frequenta un saggio, rapidamente fa suo il Dharma, come la lingua il sapore della pietanza… Qualora si trovasse una persona in grado di svelare tesori, di accorgersi dei difetti, di correggere, e saggia, ci si dovrebbe unire ad una persona tanto sapiente. A chi si unisce a tale persona, accadrà il meglio, non il peggio.3

È evidente che nulla c’è di veramente automatico e scontato nell’apprendere, ma solo una lieve empatia, armonizzazione e sentire che la trama e l’ordito della nostra esistenza proseguono oltre il profilo del nostro essere all’infinito, nella formazione di nuovi nodi, intrecci, scambi fulminei o lenti. Pur non essendo in grado di provare quello che il mio mentore prova, ciò nonostante egli fa sorgere in me un’intuizione e quando l’intuizione già c’è, egli, con il suo semplice esistere, mi trascina, mi affascina ma senza rapirmi.

Colui che rapisce difatti può essere un cattivo maestro, ma colui che stimola in me una visione nitida della vita, porta profitto al mondo intero.

Invero io non ho bisogno di rivelare la Via né di svelare alcunché, ma solo di viverci dentro; sono tra il lasciar fare e l’agire più interessato, ma anche di là da ciò e quando mi pare che qualcosa si allenta, forse è l’inizio di una tensione maggiore o solo il rilascio di troppa rigidità cumulata.

«Sono in vista di qualcosa?» questo mi chiedo tra due passi, ma al terzo già la domanda mi pare sciocca.

1 Zhuangzi cap.XIII,10.

2 Eihei Dōghen, il cammino religioso Bendōwa. Ed. Marietti pag.26.

3 Keizan, Lo Zen nell’arte dell’illuminazione, la trasmissione della luce. Ubaldini Editrice Roma pag.209.

3 Dhammapada 5.6 (65) – 6.1(76).